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Unabomber aveva ragione sulla libertà di stampa?

Una forte critica al funzionamento attuale dei social media e al loro impatto sulla libertà di espressione e sull'identità individuale, vista attraverso l'analisi del sistema tecnologico fatta da Unabomber.
L'Intuizione di Unabomber
Nel suo Manifesto, Unabomber faceva una riflessione sulla libertà di stampa e dava una motivazione ai suoi crimini: colpire l’attenzione pubblica con gesti forti, così da convincere chi controlla i Media a pubblicare il suo scritto. Voleva essere letto. Voleva contare. Era un terrorista, autore di tre omicidi e 16 attentati compiuti in USA tra il 1978 e il 1995. Le vittime erano personalità del mondo accademico e delle compagnie aeree, da cui il nome (UNiversity and Airline BOMber).
Nel 1995, inviava al New York Times e al Washington Post il suo Manifesto, un manoscritto in cui espone la sua visione del mondo, e ne chiedeva la pubblicazione, minacciando ulteriori attentati in caso di rifiuto.
La riflessione sulla libertà di stampa si trova al paragrafo numero 96. La traduzione è mia.
[La libertà di stampa] è uno strumento molto importante per limitare la concentrazione del potere politico [...]. Però, la libertà di stampa è di ben poca utilità per il cittadino medio come individuo. I Mass Media sono per lo più sotto il controllo di grandi organizzazioni integrate nel Sistema. Chiunque abbia un po' di denaro può far stampare qualcosa, o distribuirlo su Internet o in altri modi simili, ma ciò che ha da dire sarà sommerso dall'enorme volume di materiale pubblicato dai Media, quindi non avrà alcun effetto pratico. [...] Per diffondere il nostro messaggio, con qualche probabilità di avere un effetto duraturo, abbiamo dovuto uccidere delle persone.
Ovviamente, nessun messaggio è così importante da uccidere qualcuno per avere l’attenzione del pubblico più ampio possibile. Nessun messaggio vale una vita, ma il punto non è la follia omicida. Il punto è l'intuizione dietro quella follia. Unabomber, nel suo bunker senza connessione, aveva capito qualcosa di fondamentale sulla presunta libertà di stampa quando i canali sono controllati e il rumore è assordante.
La grande bugia
Nel 1995 Internet non era Facebook, X o TikTok, ma un mezzo di comunicazione usato attivamente da pochi utenti esperti. Non esistevano i commenti, le reaction, i like e neanche i selfie. Google sarebbe apparso sul Web solo tre anni più tardi, nel 1998. La pubblicazione sui principali quotidiani era, in quegli anni, il modo per arrivare al grande pubblico.
Poi è arrivato il Web 2.0. I social network. La grande bugia della connessione e della libertà per tutti. E oggi?
Quando il tuo messaggio muore
Quando pubblichi qualcosa sul Web o sui social network, l’impressione è di essere sommersi da tutti i contenuti postati dagli altri nello stesso istante. Neanche i tuoi amici fanno caso ai tuoi aggiornamenti su Facebook o ne vedono solo alcuni.
Forse si è perso quell’entusiasmo degli inizi, Facebook ha smesso di aiutarti a restare connesso con le persone care, Twitter (ora X) ti dice solo che cosa c’è di nuovo, se vuoi puoi scegliere di lasciare decidere all'algoritmo e cliccare sui "Per te" invece che sui "Seguiti". Quell'entusiasmo iniziale è morto. I brevi video di YouTube, Facebook, TikTok ecc. che scrolli lungamente sono pubblicati in genere da utenti che non segui e non ti interessa nemmeno seguire (io mi chiamo fuori da questa abitudine). Loro ci provano sempre a convincerti a seguirli, perché fare quei video costa loro tanta fatica.
Il regno della Macchina
Pubblicare qualcosa smette di essere un modo per mantenere i contatti con amici, persone care, follower ecc. se l’algoritmo filtra i contenuti e li devia altrove. È il regno della Macchina. Non è più l'utente che parla all'utente usando la piattaforma come strumento. Il rapporto è brutale, unidirezionale: è tra la Macchina e il singolo utente.
Alla Macchina non interessa il tuo messaggio. Le interessa la tua reazione. Vuole un riflesso automatico, una risposta emotiva, una scarica di dopamina che ti tenga incollato. Sa perfettamente come ottenerla. Se quello che pubblichi tu, o il tuo amico, o il personaggio famoso che segui non genera quella reazione chimica immediata, la Macchina ti toglie quel contenuto e ti serve quello che funziona.
La Macchina sa che cosa funziona con te, ciò che genera il riflesso pavloviano desiderato. Conta la reazione dell’utente e ci pensa la Macchina a decidere per te, mostrando solo ciò che genera un riflesso automatico, una risposta emotiva, una scarica di dopamina.
La discarica

Non è un caso, allora, se quei contenuti sembrano tutti uguali: sono tutti uguali! Sono progettati per esserlo. La musichetta nei video non è una scelta artistica, è una delle cinque o sei che l'algoritmo sta testando per massimizzare la tua reazione. Le scenette sono la riedizione di uno stesso formato. Il balletto è sempre lo stesso e cambiano solo i ballerini. I tutorial, a ondate, ti propongono una morning routine da ossessivo compulsivo. Sono tutte esche per click, testate e riproposte finché non abbocchi.
Se l’identità si costruisce anche nel confronto e nella relazione con gli altri, quale identità deforme, omologata e spaventosamente prevedibile si può formare se la relazione non è più con gli amici (virtuali o meno), follower o blogger ma solo tra te e la Macchina? Qual è l’effetto su ciascuno di noi?
Non è libertà
Nel suo Manifesto, Unabomber sosteneva al paragrafo 93 che la struttura stessa, la natura intrinseca della società industriale e tecnologica (di cui oggi il Web e gli algoritmi sono l'ultima evoluzione) porti inevitabilmente a limitare la libertà. È una conseguenza necessaria, non un difetto correggibile con piccole modifiche o riforme. Il sistema è fatto così e sarà sempre così.
Ti hanno dato l'illusione di una voce, chiamandola libertà. Unabomber lo aveva capito: non è libertà.
Il prigioniero addestrato
Pubblicare qualunque cosa sui social non è libertà di stampa. Scrollare illimitatamente lo schermo per ore non è libertà se ne sei dipendente e non puoi farne a meno. Non sei libero, sei il cane che sbava al suono del campanello, come nell’esperimento di Pavlov, e scrolli in cerca di dopamina.
Sei addestrato a reagire d'istinto, non a riflettere, anche quando ti informi su qualcosa di importante e, poi, parli con gli hashtag.
La gabbia dorata
Ecco cosa resta di te nella prigione dorata dell'algoritmo: un cane di Pavlov che sbava al suono del campanello digitale, addestrato a consumare stimoli rapidi, a rispondere con reazioni prevedibili, a scrollare a ripetizione la spazzatura emotiva.
Questa non è la libertà sognata da nessuno, nemmeno da un terrorista folle come Unabomber.
About me
Antonio Picco, blog on-line dal 2003.
Osservatore intransigente della società, critico dell'evoluzione digitale e del suo impatto sulle nostre vite.
Nel mio blog condivido riflessioni inedite sull'evoluzione del digitale e il suo impatto sulla società, con l'obiettivo di scardinare i diktat del pensiero stampato.
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