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Le Olimpiadi una fabbrica di medaglie e tanta retorica

Il racconto delle Olimpiadi si traduce nella retorica del non smettere mai di crederci e nel risultato di un algoritmo, che fa avanzare il contatore delle medaglie.
Un medaglificio
Una buona metà dei giochi olimpici sono già stati celebrati in tv, con ore ed ore di diretta, sui giornali, con titoli solo in caso di vittoria, e sui social network, con l'autocompiacimento e la ricerca di facili consensi.
Ai giochi partecipano 11360 atleti da 207 nazioni e a salire sul podio saranno solo in tre per ciascuna delle 42 discipline, cioè circa 1 su 100.
Con questi numeri è difficile raccontare le Olimpiadi e gli ultimi quattro anni di vita degli atleti. È più immediato contare le medaglie - oro, argento e bronzo - divise per nazione, così da simulare una gara tra Italia e resto del mondo, per appagare un certo orgoglio patriottico.
Quando un atleta italiano vince una medaglia, il suo nome fa il titolo della notizia e ne parlano come se quel nome fosse noto a tutti da sempre; invece, la gran parte degli atleti, quelli che sono lontani dai grandi marchi e dai grandi sponsor, sono pressoché sconosciuti. Però, il popolo italiano ha bisogno di eroi come di una briscola ed è briscola anche un due di coppe (se la briscola è coppe).
Il racconto delle Olimpiadi è il risultato di un algoritmo: l'atleta che vince è italiano? Se sì, allora aggiungi una unità al contatore delle medaglie, altrimenti avanti il prossimo.
La piscina con l'acqua verde
Dopo la seconda guerra mondiale, le Olimpiadi coinvolgono sempre più persone appassionate dello spirito sportivo, mentre inizialmente la passione per lo sport era elitario. Rileggendo la storia delle Olimpiadi della seconda metà del XX secolo, sembra di ripercorrere la storia del mondo moderno, con la guerra fredda e la rivalità tra USA e URSS, il pugno alzato del black power nel 1968, la guerra tra palestinesi ed israeliani nel 1972, il boicottaggio ai giochi, il doping, la tecnologia della televisione e dei collegamenti via satellite.
Delle Olimpiadi del 2016 ricorderemo il mistero sul colore verde della piscina, ma non perché non ci sia altro da dire.
Mai smettere di crederci
A che cosa credono quelli che non smettono mai di crederci?
Le dichiarazioni di chi vince sono quasi tutte uguali: mai smettere di crederci, duro lavoro negli ultimi anni, sacrifici, volontà ecc.
Quindi, l'atleta che vince è quello che non hai mai smesso di crederci; siccome ad arrivare primo è uno solo, a non aver mai smesso di crederci è stato uno soltanto: il primo. Tutti gli altri hanno smesso di crederci.
Non credo abbia senso la frase non smettere mai di crederci se l'obiettivo è arrivare primi. È un modo di dire abusato e cerimonioso, che fa perno sull'Io che crede in se stesso e lo porta davanti all'altro che - evidentemente - non ha creduto in se stesso. Solo il primo ci ha creduto, ha lavorato, si è sacrificato; ma se quella gara non l'avesse disputata per un motivo qualsiasi, allora un altro sarebbe arrivato primo al suo posto.
C'è sempre qualcuno che vince finché a vincere è uno soltanto. C'è sempre uno che vince se a perdere devono essere per forza tutti meno uno. In questo, c'entra poco l'averci creduto: a contare è l'esserci stato.
About me
Antonio Picco, blog on-line dal 2003.
Osservatore intransigente della società, critico dell'evoluzione digitale e del suo impatto sulle nostre vite.
Nel mio blog condivido riflessioni inedite sull'evoluzione del digitale e il suo impatto sulla società, con l'obiettivo di scardinare i diktat del pensiero stampato.
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